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I mala nello yoga tra moda e devozione

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108 grani inanellati l’uno dopo l’altro, che ruotano come la Terra attorno al Meru, il punto di giunzione, come se fosse il Sole. Di legno di sandalo, di semi semi di loto, di bodhi, rudraksha, di ambra o di pietre preziose, i mala sono entrati a far parte degli accessori irrinunciabili di chi pratica yoga e meditazione.

Il mala utilizzato nelle religioni e nelle pratiche originarie dell’India aiuta a tenere conto dei mantra o delle preghiere senza distrarsi con un calcolo mentale dalla meditazione in cui si è immersi. Il numero di grani non è casuale: 108 è considerato un numero sacro per diverse culture e religioni orientali  anche se ne esistono pure versioni “ridotte” da 21 o 28 grandi.

L’origine dei mala

Molti considerano il mala il rosario indiano, anche se quello della utilizzato nella liturgia cristiana è arrivato più tardi. La prima raffigurazione dei mala risale infatti al II secolo avanti Cristo quando furono immortalati negli affreschi delle grotte di Ajanta. Ben presto si diffuse in tutti i paesi asiatici influenzati dal Buddhismo.  Il rito prevede che ad ogni preghiera la mano destra sposti uno dei grani in senso orario, mantenendo un profondo rapporto con i rituali buddhisti, che si svolgono sempre in senso orario.come sistema pratico nel calcolo dei mantra e non solo; si tratta di un mezzo potente per raggiungere uno stato di calma e quiete profonda.

Curiosi di sapere di più sul termine “mala”?

In sanscrito esistono due nomi per indicarlo. Akṣamālā è composto da akṣá, che indica un seme di una particolare pianta, e mālā, ovvero ghirlanda da cui la traduzione “ghirlanda di semi”. Oppure Japamālā, composto da jápa che indica il mormorio delle preghiere e mālā e quindi ghirlanda per contare le preghiere, i mantra, mormorati. A questo proposito si dice che la parola “rosario” derivi proprio da una traduzione sbagliata di japa-mala:  quella che doveva essere tradotta come preghiera, cambiando un accento, è stata invece tradotta come rosa.

 

 

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